ASCESA DI UNA STAR
La modalità con cui studiamo il corpo umano, fin dai primi approcci negli anni della scuola, è quella di osservare ogni sistema separato dagli altri: il sistema scheletrico, con le sue 206 ossa dalle forme singolari, poi quello muscolare, quindi il sistema cardiocircolatorio, linfatico e così via, ognuno con un capitolo dedicato e tavole in cui è possibile contemplare queste strutture in una visione isolata ed esclusiva. Come vedremo proseguendo nella lettura di questo articolo, esiste un motivo per cui si è scelto di procedere in questo modo, che va cercato nella storia stessa dell’uomo che osserva sé stesso, e rappresenta una strategia di apprendimento efficace, separando per semplificare, per avere accesso a una prima comprensione della complessità del nostro corpo. Di certo, però, per fare una esperienza completa ed esaustiva della natura profonda di chi siamo e di come siamo fatti, è necessario spingersi oltre, ossia considerare questi sistemi nella loro reciproca interrelazione, suggellando questa consapevolezza attraverso l’esperienza del corpo vivo e incarnato nella sua manifestazione. Senza questo processo la sola comprensione cognitiva non sarà sufficiente per avere una visione onnicomprensiva sulla nostra condizione di esseri spirituali che compiono un viaggio nel mondo fenomenico, attraverso l’embodiment in un raffinato veicolo composto da materia organica.
Il corpo umano è di fatto un’unità olistica, poiché questa parola descrive un sistema in cui l’intero è qualcosa di più che la semplice somma delle parti, e in cui ogni singolo elemento vive in una costante interrelazione con tutto il resto.
Il primo anatomista che la storia ricordi è Galeno, un medico romano vissuto tra il 130 e il 200 d.C. che pose le basi per quella che verrà chiamata medicina per quasi tredici secoli, fino a che altri anatomisti, con la propria ricerca, confuteranno alcune sue posizioni. Uno di questi è Vesalio, siamo a metà del 1500, che porta la conoscenza oltre la medicina galenica, verso la moderna riscrittura delle scienze anatomiche e mediche. Vesalio (al secolo Andreas Van Wesel) utilizza l’indagine utoptica, la dissezione dei cadaveri, con intento metodico per ampliare la conoscenza di questo complesso universo che è il corpo umano. La febbre per la conoscenza di quegli anni contagia anche ricercatori provenienti da altri ambiti, come ad esempio Leonardo da Vinci e Michelangelo, desiderosi di penetrare il mistero di tanta bellezza per infonderla nelle loro opere immortali. Queste menti curiose, mosse dalla più genuina sete di sapere, però, in nome della ricerca, hanno guardato così da vicino il dettaglio da perdere di vista il disegno più grande: l’intero.
Al principio, molti membri dell’ambito medico guardarono con scetticismo e orrore a questo tipo di ricerca: alcuni per questioni legate alla fede religiosa, molti altri invece sostenevano che nel processo della morte il corpo subisse una trasformazione talmente profonda da non rispondere più alla biologia della vita, e quindi studiare l'anatomia sui cadaveri non poteva considerarsi una ricerca utile, né tanto meno attendibile. Bisogna tuttavia essere riconoscenti a questi ricercatori, il cui lavoro ha rappresentato una base importantissima per lo studio del corpo umano, che ha condizionato il modo in cui l’uomo guarda a sé stesso nonché l’intera storia della chirurgia moderna.
È necessario ricordare, però, che non si tratta dell’unico approccio utilizzato dall’umanità per affrontare lo studio dell’uomo e dell’umano. In altre culture e approcci alla vita, come quello che proviene dai nativi americani o dall’Oriente, l’uomo ha contemplato e studiato sé stesso senza recidere, tagliare o separare, senza dissezioni, insomma, optando per metodi come l’osservazione e l’esperienza diretta. Anche se potrebbe sembrare un metodo limitante, l’osservazione del corpo in vita ha permesso a maestri, asceti, studiosi e ricercatori dell’umana condizione, di sviluppare sistemi come ad esempio quello dello Yoga o la Medicina Cinese, estremamente precisi ed efficaci, basati su due idee fondamentali: la prima è che esiste un’energia che sottende a tutto il Creato, che nello yoga viene chiamata Prana, mentre nella Medicina Cinese Qi. Con questa premessa un cadavere, ossia un corpo in cui questa energia non scorre più, è ovviamente escluso da qualsiasi indagine ritenuta utile, mentre molto spazio viene dato allo studio e all’osservazione dell’uomo vivo, in una visione in cui psiche, spirito e corpo sono ugualmente importanti. La seconda idea è, quindi, che il corpo umano è un’unità che non può essere divisa o frammentata, e che gli aspetti invisibili, ossia tutto ciò che non si manifesta in materia densa, fanno parte di questa unità, che può essere compresa davvero solo in quanto tale.
Le competenze, i saperi e le scoperte che ci arrivano da questo tipo di indagine hanno portato la scienza occidentale a guardare al corpo in un modo nuovo, meno meccanicistico e più orientato verso una concezione unitaria del sistema, specie in tutte quelle discipline somatiche, olistiche e rivolte alla cura che guardano più a promuovere e riconnettere la persona con le intrinseche risorse del corpo, riconoscendo l’importanza delle emozioni e gli effetti che queste possono avere sul soma, piuttosto che pensare di ‘aggiustare’ qualcosa osservando il sintomo solo in relazione alla zona in cui si manifesta, senza tenere conto dei campi sottili.
Questa visione unitaria dell’essere ha messo sotto una nuova luce un tessuto che fino a qualche decennio fa non godeva della dovuta attenzione e comprensione, si tratta di un tessuto che i primi anatomisti addirittura gettavano via perché non lo consideravano importante, mentre oggi si è compreso che questo organo complesso e sensibile svolge funzioni fondamentali non solo dal punto di vista biomeccanico e biodinamico, ma anche nell’integrazione dell’essere nella sua accezione più ampia: sto parlando del tessuto fasciale, che oggi assurge ai clamori delle folle e all’attenzione di qualsiasi ricercatore del corpo.
Questa rete sensibile, la cui forma e consistenza ricorda molto quella tessuta dai ragni, occupa ogni più recondito angolo del nostro corpo e non connette soltanto i vari comparti e segmenti che compongono l’aspetto fisico, facendoli comunicare e permettendo alle informazioni di transitare, ma connette anche il nostro visibile con l’invisibile. Tutti noi sappiamo che stress e traumi emotivi sedimentano nel corpo fisico e possono dare vita a specifiche sintomatologie, così come il dolore emotivo spesso si esprime attraverso dolore fisico, quello che pochi sanno è come questo trasferimento avviene. Ebbene, il tessuto fasciale svolge un ruolo da protagonista in questo dialogo silenzioso attraverso i mondi che ci compongono, ma non solo: il sistema fasciale è strettamente connesso anche con il nervo vago, che rappresenta circa il 75% del nostro sistema nervoso parasimpatico, agendo come inibitore del sistema nervoso simpatico, ossia il ramo legato alle risposte di combattimento o fuga. Il parasimpatico è un sistema che rallenta, calma, crea un senso di unione e connessione con l’altro, ci consente di riposare e su questo ramo il nervo vago agisce proprio come un freno. Questo nervo lungo e ramificato, il decimo nervo cranico, comunica in modo bidirezionale con il cervello, ed è uno dei principali strumenti con cui vengono diramate informazioni sui cambiamenti del tessuto fasciale. Quando il sistema simpatico viene sollecitato troppo o troppo a lungo, il nervo vago, per proteggere l’organismo, può decidere di schiacciare il pedale del freno e obbligare il corpo a fermarsi per rigenerarsi. Si tratta di un meccanismo di difesa antico e inconscio, che arresta il sistema prima che lo stress eccessivo possa danneggiare parti vitali. Per evitare di arrivare a questo parossismo possiamo imparare ad ascoltare i messaggi che il corpo ci invia e utilizzare pratiche che ci aiutano a lasciare degli spazi vuoti nelle nostre giornate, in cui il corpo trovi il tempo per riposare, nutrirsi, osservarsi.
Il vuoto, il silenzio e la quiete sono una cura per i mali che affliggono l’uomo contemporaneo, così iper sollecitato e sottoposto a una valanga di input di varia tipologia, a ogni minuto, ma molto spesso accade che, sebbene si desideri intensamente avere del tempo in cui riposare, quando poi finalmente ne abbiamo a disposizione, tendiamo a riempirlo di impegni e cose da fare, come se avessimo timore di stare senza fare niente. Questa coazione a ripetere potrebbe essere dovuta anche al fatto che la nostra è una cultura fondamentalmente basata sull’economia capitalista, in cui la produttività è riconosciuta come la qualità più importante, e quindi inconsciamente siamo portati a pensare che stare senza fare niente sia una perdita di tempo, sorgono sensi di colpa per il fatto di non aver sfruttato quel tempo per la realizzazione di qualche progetto o azione, mentre per il corpo, un sistema antico (almeno più antico della neocorteccia), avere un tempo per praticare la non azione, rappresenta un tesoro di inestimabile valore. Creare spazi vuoti nelle nostre giornate è un dono che possiamo farci per mantenere un equilibrio tra lo yin e lo yang.
BISTURI? NO, GRAZIE.
Tornando alla storia dei pionieri dell’anatomia, è doveroso ricordare che allora non erano ancora stati inventati gli strumenti adatti per svolgere quel tipo di indagine, quindi venivano utilizzati coltelli da caccia o da macelleria per fare le dissezioni. Solo in seguito si poté disporre di bisturi e di altri strumenti di precisione creati apposta per consentire ai ricercatori di compiere un’opera più raffinata, dando loro la possibilità di comprendere meglio l’incredibile biodiversità presente nel nostro organismo.
La radice etimologica della parola anatomia deriva dal greco ανατομή, anatomè, cioè proprio "dissezione", formata da ανά, anà ossia "attraverso", e τέμνω, tèmno che vuol dire "tagliare", separare le parti, insomma, dividere, e neanche andando troppo per il sottile, in questo caso: nel tentativo di rivelare i misteri nascosti nei recessi del corpo umano, questi pionieri avidi di sapere tagliavano malamente tutto ciò che si trovava tra un tessuto e l'altro, tra un sistema e l'altro, recidendo quindi tutte le barriere di connettivo, con la responsabilità di averne a lungo offuscato il prezioso ruolo. La divisione non si è operata solo sul tavolo delle dissezioni, ma nella relazione stessa dell’uomo con sé stesso, la scissione non ha riguardato solo il corpo fisico ma anche la mente, che ha cercato di guardare attraverso una separazione ciò che poteva essere compreso solo come unità. Forse avevano ragione i detrattori della prima ora, nel considerare il corpo vivo profondamente diverso da quello senza vita sul palcoscenico dei teatri anatomici? Non ci è dato saperlo, si è scelta una strada e si è percorsa quella, perché evidentemente risuonava con il nostro sentire di allora, mentre oggi la sensazione è che stiamo cercando di muoverci verso un territorio di comprensione più profondo e basato sulla relazione: relazione tra cellule, tessuti, sistemi, individui, specie. Questa storia riguarda il nostro corpo e anche come questo si connette e si relaziona con il mondo, come in tutti i percorsi di realizzazione non si avanza su un cammino lineare o con velocità costante, ma si naviga a vista e si procede per tentativi alla ricerca di risposte alle nuove domande che l’umanità si sta ponendo, alle tematiche che emergono prepotentemente in primo piano, con cui dovremo misurarci negli anni a venire. La scoperta delle funzioni del tessuto fasciale e dei suoi importanti, molteplici compiti, tra cui anche la ripartizione biodinamica delle forze che attraversano il corpo, è stata decisiva anche nel rivelarci molto di come la nostra natura di perfetta opera di ingegneria, viva e in movimento, sia essenzialmente un'unità organica funzionale indivisibile. Se si potesse isolare l’intera struttura di connettivo, ossia il tessuto fasciale, da tutto il materiale cellulare, potremmo ammirare sbalorditi questa fittissima e complessa rete, simile a una ragnatela tridimensionale, che si diparte dallo strato basale della cute, addensandosi nel tessuto fibroso che riveste gli organi, i muscoli, le ossa e la 'pelle' delle cartilagini che rivestono le ossa: un continuum che pervade tutto il nostro corpo, rivelando la vera identità di questa struttura, ossia un 'organo della forma', nonché il più esteso tessuto de corpo, dal momento che ne rappresenta il 20% del peso complessivo.
Sono proprio queste caratteristiche a renderla capace di connettere, appunto, unire e sostenere l'intero sistema; sono le stesse caratteristiche che hanno reso questo organo una vera e propria star della nuova era.
I treni di Thomas Myers
Thomas Myers, nel suo libro Anatomy Trains (in italiano “Meridiani Miofasciali”, una pietra miliare per chiunque fosse interessato ad approfondire la conoscenza della fascia, sebbene oggi sia considerato un testo già datato), ha trovato un formidabile esempio per descrivere questo tessuto, rendendo facilmente comprensibile la sua funzione, in termini di forma, in modo diretto e senza troppi giri di parole. Immaginiamo un pompelmo tagliato a metà, facendo esattamente ciò che i primi anatomisti fecero con il corpo umano, per osservare al suo interno come il frutto compaia suddiviso in scomparti più o meno regolari, organizzati attorno al centro. Partiamo con l’osservare lo strato esterno della buccia, protettivo e designato a interagire con l'esterno, esattamente come la nostra pelle. Procedendo verso l’interno, lo spesso strato della buccia, molto simile al nostro strato di grasso sottocutaneo, un indispensabile involucro che tutti noi indossiamo. In seguito possiamo osservare come ogni spicchio sia contenuto in una membrana, che è a contatto con la membrana dello spicchio adiacente, esattamente come nel nostro corpo, nel quale quasi sempre le membrane si presentano in doppio strato. All'interno dello spicchio, infine, le particelle di succo sono a loro volta inserite in altre membrane più sottili dalle pareti trasparenti, come le membrane delle nostre cellule. Senza questa struttura il pompelmo sarebbe solo una piccola chiazza di succo. Allo stesso modo anche noi, senza gli involucri fasciali che organizzano il nostro 'succo' in fasci distinti, saremmo solo materiale in caduta libera sotto l'azione della forza di gravità: una poltiglia organica incapace di muoversi o di sostenersi.
Fascia e miofascia: un continuum dai molteplici volti
Sui libri di scuola -almeno quelli su cui ho studiato io - viene data poca importanza al tessuto fasciale, che rimane sempre una presenza misteriosa all'interno del nostro corpo, spesso descritta in modo sbrigativo come la linea bianca che separa un muscolo dall'altro o poche informazioni in più. Il connettivo, invece, è una struttura estremamente complessa e dalla natura multiforme, che si compone di una schiumosa e soffice struttura extracellulare, una specie di marea, di oceano che si muove fluido e sorregge cellule e strutture (come ad esempio i vasi sanguigni), mantenendole al proprio posto ma permettendo loro al contempo di muoversi in armonia. Ciò che Grey chiama Matrice Extra Cellulare, o MEC, quindi, si è sviluppata per distribuire le tensioni date dal movimento e la compressione della gravità, mantenendo contemporaneamente forma e posizione ai diversi componenti: una matrice vivente continua e dinamica che si estende a ogni angolo del corpo, specializzandosi e cambiando consistenza e caratteristiche a seconda della funzione in quella specifica parte del corpo.
Il fascino irresistibile che questo tessuto ha avuto negli ultimi anni tra i ricercatori di tutto il mondo, oltre al suo mistero ancora in parte inviolato che alimenta la sete di risposte, è dovuto anche al passaggio compiuto come specie, dalla visione del corpo-macchina-automa alla concezione di un corpo-organico-unità: un raffinato organismo che riesce a funzionare solo se tutte le sue parti sono connesse tra loro e comunicano in un potenziale unitario che è maggiore rispetto alla somma delle singole parti, in cui includiamo ovviamente anche i campi sottili, se vogliamo guardare a noi stessi con un approccio yogico. Questo vuol dire che dietro al sintomo e alla malattia esiste un percorso che origina da una interferenza nel campo energetico che - se ascoltata e vista per tempo - può essere reindirizzata e riequilibrata prima che la situazione peggiori.
Se consideriamo il microcosmo come riflesso del macrocosmo (anche questo un concetto che mi piace accogliere dalla visione orientale), il tessuto fasciale, questo elemento di connessione profonda tra gli elementi del nostro universo interiore, ci insegna che in quanto individui siamo parte di una collettività, in relazione alla famiglia allargata del Vivente e di tutte le creature con cui condividiamo l’esistenza su questo bellissimo pianeta blu: come individui siamo parte di questa rete connettiva, invisibile ma percepibile, che ci pone in reciproca relazione attraverso una pulsazione collettiva, da cui non possiamo in nessun modo sentirci estranei. Mi piace pensare che la fascia sia arrivata ad attirare l’attenzione su di sé proprio adesso, perché forse una parte dell’umanità è pronta a guardare all’esistenza da un altro punto di vista, dando vita a un movimento di transizione della coscienza, verso un sentire meno egoico, e
individualista e antropocentrico, e più nell’ottica del mutuo sostegno, della condivisione e della reciproca integrazione.
La fascia è un tessuto vivo
Potrei azzardarmi a sostenere che il muscolo è elastico, mentre la fascia è plastica, ma questa affermazione va presa come un’estrema semplificazione, dal momento che esistono anche tessuti fasciali con proprietà elastiche. A ogni modo questa affermazione può essere utile per semplificare, creando una prima breccia verso un universo estremamente complesso, come lo è tutto ciò che ci riguarda. Da tempo si stanno osservando le proprietà mnemoniche del connettivo, che ancora oggi sono in parte un mistero da svelare: la fascia può ispessirsi in alcune regioni se lungo la rete gravano delle linee di tensione, sulle quali possono depositarsi nuove molecole di collagene (una proteina, la principale componente del tessuto fasciale), formando una vera e propria imbracatura di matrice non elastica. Oppure può perdere umidità e ispessirsi a seguito di una percepita minaccia alle nostre risorse, specie se reiterata nel tempo, che può riguardare il corpo fisico ma anche lo stress emotivo. Quando la fascia viene profondamente deformata, o meglio, quando le nostre abitudini nella postura, nei movimenti o negli schemi mentali vengono definitivamente impresse nella memoria di questo tessuto, tornare a una condizione neutra o a un allineamento ottimale può rivelarsi complesso e richiede un lavoro specifico per riabilitare il corpo e la percezione che abbiamo su di esso, la nostra “casa”. La postura riguarda essenzialmente la nostra strategia di vita, quindi il modo con cui decidiamo, coscientemente o no, di abitare la nostra struttura, e questo -ancora una volta- non dipende solo dalla biomeccanica del corpo, ma soprattutto dalla nostra energia mentale, da quella emozionale e dalla consapevolezza con la quale riusciamo a osservare e a dirigere questi campi, sublimandoli e integrandoli.
La fascia ha un’importanza essenziale per quanto riguarda la postura, perché si trova a creare un continuum dalla pelle fino alle ossa, avvolgendo ogni singolo componente (cellula, tessuto, sistema) e quindi a stabilire quelle relazioni tra le parti che possono essere virtuose, donando al corpo un allineamento bilanciato e un movimento armonioso grazie alla capacità di far scivolare le superfici senza alcun attrito; oppure meno virtuose, con una conseguente condizione di sbilanciamento e una perdita di orientamento alla linea mediana (uno dei più importanti fulcri organizzatori del nostro essere), con asimmetrie che aumentano progressivamente nel tempo, impedendo al corpo di muoversi liberamente, e senza uno sforzo eccessivo.
Abbiamo visto come la fascia sia un tessuto che vive in un’intima relazione con la nostra emotività, custodisce in sé una grande intelligenza antica e ancestrale, che non ha niente a che vedere con quella cognitiva, quella del cervello più recente, per intenderci. Proprio come la rete digitale del web, la fascia consente a un’enorme quantità di dati motori e sensoriali di muoversi ad altissima velocità per informare e attivare le risposte, in un processo ininterrotto che avviene a nostra insaputa in ogni momento. Anche adesso, mentre leggi queste righe, nel tuo corpo il dialogo continua indisturbato. Tutte queste informazioni ed esperienze attraversano poi un processo di embodiment, che nella maggior parte dei casi avviene in modo spontaneo al di sotto della soglia della consapevolezza. Decidere di dedicarsi alla postura e all’allineamento del proprio corpo rappresenta quindi un interessantissimo viaggio nella nostra personale storia e nella biologia che ci compone, un percorso di consapevolezza che porta salute e presenza nel corpo.
I sacchi che avvolgono gli organi hanno una tecnologia speciale a triplo strato: due strati di fascia che contengono al loro interno un gel. Questa struttura trina consente agli organi di scivolare gli uni sugli altri, come gli ospiti di un acquario un po’ affollato, ma anche protegge dagli urti o dalle forze compressive ricevute a seguito di un trauma da collisione. Questo riguarda anche, ad esempio, il semplice dissipare i colpi che il cervello riceve a ogni passo, durante la deambulazione, mentre se ne sta protetto nel suo sacco fluttuante, le meningi, che avvolgono e proteggono il sistema nervoso centrale (con una speciale struttura la cui esposizione non sarà trattata in questa occasione). Allo stesso modo i polmoni sono accolti nelle pleure e il cuore nel pericardio. quest’ultimo ha una particolare importanza nella Medicina Cinese: se il cuore è l’Imperatore, il pericardio è il suo Ministro, colui che ha il ruolo di decidere chi entra nella stanza imperiale e chi no.
Una fascia sana è distesa e in movimento. La forma della fascia è come quella di un complesso origami con tante piccole pieghe, un po’ plissettata e avvolta su sé stessa in spirali. Il tipico movimento di rilascio fasciale è un dispiegamento o uno srotolamento, a seguito del quale si può percepire uno sprofondamento in una sensazione di distensione, quiete, calma, pienezza del sé. Come osservavo poco più sopra, le vite iper-cinetiche dei cittadini contemporanei sono fortemente attivanti e vanno sempre a stimolare il ramo ortosimpatico del sistema nervoso, per questo ritengo sia molto utile conoscere metodologie che aiutino a riportare la fascia a uno stato ottimale, a decomprimere il sistema quando serve, a riconnettersi con il parasimpatico per promuovere la salute e la presenza mentale, persino in queste giungle di cemento in cui ci siamo rinchiusi.
Abbiamo visto come la fascia può modificarsi plasticamente per varie cause che possono essere meccaniche, a seguito di un atteggiamento reiterato nel tempo, come ad esempio portare la borsa a tracolla sempre dalla stessa parte, ma può avvenire anche per ragioni differenti, come la modalità con cui il nostro organismo gestisce lo stress. Definiamo lo ‘stress’, in questo contesto, come qualsiasi percepita minaccia alle nostre personali risorse, che influenza la qualità della fascia, contraendola e intossicandola. Per funzionare bene la fascia deve essere idratata in modo adeguato: quanto più sarà umida, tanto minore risulterà la distinzione interna tra ossa, organi, muscoli e pelle. Tutte le parti scivoleranno reciprocamente le une sulle altre, dando la sensazione di un movimento unitario e armonioso di tutti i tessuti. Questa sensazione di annullamento delle barriere interne concederà al corpo dei movimenti fluidi e quella connessione con il ramo parasimpatico del sistema nervoso autonomo, ed è proprio in questa condizione che una fascia rilasciata manifesta appieno il proprio potenziale di sostegno, forma, tono, connessione e tensegrità. La rete fasciale, che avvolge e tiene organizzate insieme, ma distinte, le varie strutture corporee, permette così di muoversi con grazia quanto più è umida, rilasciata, in comunicazione olistica con il tutto.
Uno degli effetti dello stress sulla fascia è quello di seccarla, disidratarla, e più sarà asciutta, tanto maggiore sarà l'attrito e la percezione di separazione tra le strutture interne. Questo trasmetterà una sensazione di isolamento, un bisogno di separazione, con movimenti bruschi e una attivazione del ramo ortosimpatico del sistema nervoso, ottenendo come naturale risposta dell'organismo una diffusa contrazione dei tessuti. Ecco come uno stato di eccessiva tensione nella fascia può innescare quel processo di ispessimento e di modificazione plastica della forma di cui abbiamo parlato.
Un altro effetto di questo ispessimento della fascia è la presenza di aderenze, ossia di quei punti in cui dovrebbe manifestarsi libero scivolamento, e invece del collagene va a costruire legami tra i piani fasciali, incollandoli insieme, impedendone lo scorrimento reciproco. Questo può presentarsi a causa di una prolungata inattività, ad esempio, o anche a seguito di ferite o interventi chirurgici. Molte donne che hanno partorito tramite taglio cesareo, ad esempio, sapranno benissimo di cosa sto parlando. Essendo questo un sistema unitario in cui tutto è in relazione col tutto, è chiaro che un’aderenza in una parte del corpo comunica la sua informazione all’intero sistema, fino a raggiungere l’angolo più lontano dal luogo in cui si trova, ed è così che la postura può adattarsi a quella informazione, fino a modificare progressivamente l’orientamento dell’intera struttura. Grazie all’intervento di operatori professionali è possibile “rompere” le aderenze e consentire nuovamente alle parti di scivolare, procedendo poi a una rieducazione della postura per riportare il corpo a una condizione ottimale e prevenirne la ricomparsa.
Tensegrità: integrità di tensione
“La colonna vertebrale non sostiene il peso, non è stata progettata per questo. La colonna separa i tessuti molli e protegge il sistema nervoso. È un graticcio a cui sono assicurate le componenti miofasciali.
Prendiamo l'esempio di una tenda: cosa tiene in piedi la tenda? Non è il palo centrale, ma i tiranti: il palo assicura il giusto bilanciamento spaziale tra le due parti: la colonna divide il canale neurale da quello viscerale”.
Questa affermazione rivoluzionaria di Ida Rolf, creatrice del Rolfing, attraverso l'osservazione del ruolo della fascia nelle relazioni tra i delicati equilibri che mantengono forma e allineamento del corpo umano, toglie alla colonna vertebrale il suo tradizionale ruolo di semplice sostegno, per integrarla all'interno di un sistema biodinamico più complesso di quello esposto dall'anatomia: un modello corporeo di tensegrità.
In un simile sistema le forze sono distribuite sull'intera struttura, formata da elementi di compressione ed elementi di tensione, che si armonizzano esprimendosi in un equilibrio dinamico, vivo e vitale, in costante adattamento a ogni cambiamento. In queste condizioni quando una forza viene esercitata su una parte, è l'intera struttura che si fa carico di ritrovare l'armonia. Nel corpo umano le ossa sono principalmente elementi di compressione, simili ai pali di supporto di una tenda (sebbene anche le ossa possano trasportare tensione), mentre la miofascia può essere considerata il principale elemento di tensione, con un ruolo molto simile a quello dei tiranti della tenda. Gli elementi di compressione, le ossa, si comportano quindi come dense isole tenute in equilibrio dalle forze tensive, date dalla fascia, che ne mantengono la posizione.
Secondo questo modello il tono della fascia diventa decisivo per ottenere una struttura ben bilanciata, aggiungendo nuovi punti di vista su cosa si intende per corretto allineamento e sul percorso che conduce alla manifestazione di una perdita di questo equilibrio delicato. Soprattutto ci mette di fronte all'evidenza che per modificare la relazione tra le ossa può essere necessario agire sull'equilibrio delle forze di tensione che ne determinano il posizionamento.
Il modello di tensegrità è un modo semplice e diretto per spiegare come mai spesso il sintomo non si manifesta nella stessa regione della causa che lo ha scatenato, proprio in virtù di questa proprietà di trasmissione delle forze, che si spostano all'interno della rete connettiva e vengono costantemente redistribuite. Nel nostro corpo tutto vive in un costante cambiamento, istante dopo istante, e anche se questa caratteristica potrebbe farci pensare che si tratti di un sistema vulnerabile, in realtà la sua forza è proprio in questa capacità di non essere mai rigidamente uguale a sé stesso ma in costante rinegoziazione delle forze che lo attraversano. È questa l’espressione più interessante dell’intelligenza custodita nel nostro soma.
Mantenere una sana relazione con la fascia
Esistono diverse pratiche manuali che contribuiscono a mantenere la fascia idratata, scivolosa e distesa, ma oltre a quello che si può fare con l’intervento di un operatore professionista, esistono anche pratiche corporee che contribuiscono al raggiungimento e al mantenimento del medesimo obiettivo. Tra queste trova posto la pratica dello Yin Yoga, una metodologia di Yoga contemporaneo ispirata non dall’universo indiano, bensì da quello proveniente dalla Cina, più precisamente dalla filosofia del Taoismo e dalla Medicina Cinese.
Lo yoga è un sistema di ricerca molto vasto e complesso, un universo che difficilmente si riesce a comprendere in una sola esistenza, specie per noi, nati in questa parte di mondo, a cui lo yoga chiede di scardinare schemi mentali e fisici, nonché condizionamenti culturali, sociali e religiosi, per immergersi in questo antico sapere, affidandosi a ciò che gli antichi maestri hanno tramandato. Lo Yoga può essere considerato una filosofia, che però viene applicata all’esistenza con metodo scientifico, attraverso una serie di pratiche dedicate ai vari aspetti che ci compongono, da quelli grossolani a quelli sottili, e che fanno dello Yoga un importante strumento per attraversare la propria esistenza con grazia e consapevolezza.
Nello specifico dello Yin Yoga, la caratteristica che lo contraddistingue è che le pose vengono mantenute a lungo, dai 3 ai 5 minuti in su, un tempo necessario affinché diversi processi vengano portati in essere nel corpo e nella mente del praticante. L’obiettivo è di ristabilire quegli spazi negativi (vuoti) presenti tra i piani fasciali, che potremmo anche chiamare canali, in cui l’energia possa nuovamente scorrere senza incontrare ostacoli. Si tratta, quindi, di una pratica tesa ad agire sul corpo energetico, ma che ovviamente ha degli effetti anche sul corpo fisico, perché in un sistema olistico come il nostro è impossibile portare azioni in un livello senza che queste abbiano effetti su tutti gli altri.
Con Yin si intende proprio il complementare di Yang: i due aspetti dell’energia contenuti nel simbolo del Tao, che rappresenta l’universo e tutte le sue coppie di opposti. Ma considerarli semplicemente opposti non rende giustizia a questa meravigliosa visione dell’universo così splendidamente riassunta in una delle immagini grafiche più conosciute al mondo: un cerchio diviso in due da una linea ondulata, da una parte uno spazio nero e dall’altra bianco. Laddove la pancia del nero raggiunge l’apice compare un puntino bianco, e viceversa. Un’immagine che suggerisce immediatamente l’idea del dinamismo, della trasformazione fluida e della non separazione tra le parti, quanto più un perpetuo e ciclico cambiamento. Non si tratta, quindi, di coppie di opposti, ma di aspetti in costante trasmutazione.
Proprio perché il connettivo ha proprietà più plastiche che elastiche, ha bisogno di tempi lunghi per dispiegarsi e srotolarsi, così questo approccio al corpo, con uno spirito radicalmente taoista, sfida le tendenze comuni dell’uomo contemporaneo portandolo a fronteggiare il vuoto, la lentezza, la deformazione del tempo, sfidandolo a stare in quello che c’è, senza desiderare di essere altrove. La nostra mente digitale è una specie di criceto che continua a correre nella ruota, ha sempre voglia di fare, di essere stimolata e impegnata in ogni tipo di fugace osservazione del mondo, con i sensi sempre pronti a lasciarsi attrarre dagli oggetti esterni in fascinazioni fugaci e temporanee. La pratica Yin è principalmente una pratica meditativa, in cui l’oggetto di osservazione è il giardino interiore, con tutti i processi che si attivano nel momento in cui somministriamo una dolcissima dose di stress attraverso un lungo tempo di posa. Questa, come la goccia che buca la pietra, lentamente ma con costanza e continuità, lavora contemporaneamente con grande efficacia sugli ispessimenti del connettivo e sulle rigidità mentali. La mente diventa sempre più affilata e appuntita, man mano che ci si addentra in questo universo, come la punta di una spada, che anziché ferire guarisce, anziché recidere unisce.
Come tutto ciò che appartiene alla scienza yogica, ovviamente, anche la pratica dello Yin Yoga richiede costanza e continuità, ma i risultati sono presenti e visibili fin dalla prima sessione, sia che provochi in noi insofferenza e senso di costrizione, che rilascio, rallentamento e quiete. Si tratta di una pratica che ci fa da specchio, restituendo un fedele riflesso di quella che è la nostra modalità di affrontare la pratica, e mostrandoci una via per incontrare il corpo esattamente dove si trova in quel momento, nel modo più rispettoso e semplice possibile. Sebbene da fuori possa sembrare una pratica blanda, poiché si resta fermi a lungo, in realtà è proprio portando gli strati più esterni del corpo alla stasi, che si permette al dinamismo interno di emergere e portarsi in primo piano, lasciando l’antica intelligenza del corpo lavorare indisturbata, mentre noi possiamo rimanere come testimoni di questo miracolo.
Molto spesso i praticanti la percepiscono come una pratica di stretching, perché sentono il corpo che si apre e si allunga, ma è solo un’illusione, un condizionamento dovuto al fatto che nella maggior parte degli approcci al corpo si tende a lavorare solo sul sistema muscolare, senza preoccuparsi del resto. Nello Yin Yoga, invece, i muscoli vengono totalmente disattivati, poiché si tratta di tessuti Yang e quindi dotati di una energia inadatta alle lunghe pose che questa pratica propone, che invece agiscono in modo preciso sul connettivo e negli spazi e dispositivi intra articolari (legamenti, capsule, cercini, labbri). La sensazione di allungamento è data dallo srotolamento o dispiegamento della fascia, con conseguente liberazione di questo importante spazio negativo in cui il Qi può nuovamente fluire, nutrendo ogni aspetto dell’essere. Quando la fascia si disidrata, creando attrito, questa intelligenza non riesce a giungere in ogni angolo del corpo, mentre quando la fascia è in uno stato ottimale, persino il semplice atto di respirare mette in moto l’intero sistema dei sacchi, dissipando ogni ristagno e facilitando anche l’eliminazione delle scorie. Grazie allo Yin Yoga possiamo inabissarci in questo territorio in cui materia e spirito giungono a toccarsi, donandoci uno stato di beatitudine, di grazia benedetta che perdura anche quando si scende dal tappetino.
La chiave per comprendere questa pratica è il tempo, il tempo che ci si concede per rivolgere lo sguardo verso il proprio spazio interiore, il tempo che si dilata, fino quasi a sospendersi, un tempo necessario in cui possiamo finalmente concederci l’abbandono, liberandoci del non necessario. Una pratica in cui si procede per sottrazione fino a rimanere solo con l’indispensabile.
Rallentare.
Lasciar andare.
Non attaccarsi alle cose e ai pensieri.
Non azione.
Ascoltare.
Osservare.
Sprofondare.
Abbandono.
Attendere senza attendere.
Nessuna aspettativa.
Nessuna proiezione.
Radicarsi nell’eterno presente, che si rinnova a ogni respiro.
Fidarsi e affidarsi. Posarsi e riposarsi. Espandersi e ritrarsi. Fluire.
Trasmutare. Amare. Essere.
Come ti senti mentre leggi queste parole?
Senti una parte di te che comincia ad ammorbidirsi, ad aprirsi all’ignoto?
Il grande vuoto attende amorevole, pronto a incontrare le nostre parti più vulnerabili e a prendersene cura, in quel luogo di confine, in cui il respiro muove l’energia del cosmo dentro al corpo, in cui materia e spirito incarnano il loro dialogo attraverso i movimenti del connettivo. La pratica prolungata e costante ha degli effetti sul modo in cui guardiamo all’esistenza stessa, e non si tratta di diventare dei mistici che vivono ritirati in un solitario eremitaggio sulla cima di qualche montagna, ma semplicemente di risvegliare quel dialogo interiore così importante che la vita che ci siamo creati sta progressivamente spegnendo. Si tratta di ritornare ad amare la nostra natura più profonda, di riconoscere la nostra origine divina, di sedare il nostro perenne desiderio di controllo sulle cose e sulle persone, per tornare a percepire questa rete di connettivo che ci fa sentire integri, presenti, vivi, e mette in collegamento ognuno di noi con gli altri, accogliendo tutti senza alcun desiderio di cambiarli, poiché ognuno di noi viene al mondo libero e completo a sé stesso.
Per farlo, possiamo cominciare a conoscere meglio questo organo di senso, percepirne le variazioni e i cambiamenti grazie a una pratica perfettamente disegnata proprio per questo scopo, comprendendone il ruolo così importante attraverso l’esperienza. Il corpo fisico, in una autentica visione yogica, diviene quindi una porta, un passaggio verso l’invisibile, verso ciò che percepiamo come meno tangibile, almeno fino a che non alleniamo il nostro sguardo a catturare anche quel tipo di immagine, proprio come quando entriamo in una stanza buia, e all’inizio non vediamo niente, solo nero davanti agli occhi spalancati. Muoversi potrebbe essere potenzialmente pericoloso perché potremmo urtare qualcosa e farci male, ma se restiamo in attesa silenziosa e quieta, lentamente i nostri occhi si abitueranno al buio, a quella condizione aliena e apparentemente inospitale, cominciando a percepire i profili delle cose, perché saremo in grado di ricevere la benché minima vibrazione luminosa attraverso la vista che diviene più sensibile e vigile. Ecco. Allo stesso modo attraverso lo Yin Yoga possiamo abituare la nostra vista interiore ad acquisire nuove abilità, al nostro ascolto di divenire più recettivo.
Una vista che non si fa con gli occhi, un ascolto che non si fa con le orecchie.
In copertina: Mt. Fuji attraverso una tela di ragno, di Katsushika Hokusai
Correzione bozze e revisione: Martina Fusé
Ringrazio tutti i maestri che mi hanno trasmesso queste conoscenze, sia quelli che ho conosciuto di persona che coloro da cui sono stata raggiunta attraverso la loro opera di scrittura. Così come ricevo, allo stesso modo riconsegno attraverso la trasmissione, affinché il ciclo possa continuare.

